La mente umana non vede: interpreta. E quando ha un bisogno forte, affetto, validazione, appartenenza, comincia a proiettare.
Satura il vuoto con l’immagine più comoda, più seducente, più necessaria.
Così, una persona mediocre può sembrarci magnetica. Un volto qualunque diventa “bello”. Un comportamento ambiguo si colora di profondità. È il filtro deformante del bisogno che trasforma il banale in speciale, il tossico in romantico, il confuso in poetico.
Ma quando a guardare è una mente affamata, il rischio non è solo vedere male: è inventare completamente ciò che non esiste.
Perché la psiche, pur di non sentire il vuoto, ha preferito raccontarsi una favola.
È la distorsione della percezione che avviene quando il bisogno di essere visti è più urgente della realtà stessa. E allora scambiamo segnali vaghi per conferme. Bruscolini per stelle. Fischi per fiaschi.
Sì, la bellezza è negli occhi di chi guarda. Ma chi guarda da una ferita… non vede, immagina. Non osserva, spera. Non riconosce, idealizza.
Un tentativo disperato di risolvere nel presente una ferita formata altrove.
Ma chi guarda con gli occhi rotti dal vuoto, crea miraggi. E si convince che un’ombra sia luce. Che uno sguardo sfuggente sia profondità, o addirittura ipnotico e seduttivo.
Serve lucidità per dire: “Non era speciale. Era solo perfetto per il mio buco emotivo”.
La guarigione inizia quando smettiamo di chiamare “destino” quello che era solo bisogno vestito bene.

E quando si capisce, si guarda di nuovo. E non si vede più niente.

E ti chiedi: “Davvero era questo, tutto questo?”

Sì. Era solo quello che ti serviva credere.

✨️